In tanti gridano allo scandalo pensando al ritorno in campo dei calciatori, quindi al ritorno “al lavoro” per loro, come per tante persone che conosciamo bene, come i medici, gli infermieri, le forze dell’ordine, i camionisti, le commesse, e molti altri. Tante categorie dunque lavorano, seguendo ovviamente le prescrizioni dettate dalle autorità. In tanti sostengono che il calcio vuole sempre fare di testa sua perché muove i soldi e perché ci sono troppi interessi. Sicuramente vero, ma mettiamo per un momento da parte le “chiacchere da bar” e facciamo un ragionamento con i dati alla mano.
La riforma dello sport iniziata dal Governo Conte I con l’allora Sottosegretario Giorgetti e la legge di stabilità del 2019 hanno ribadito il principio di autofinanziamento dello sport. I contributi dunque che lo Stato assegna a CONI e Sport e Salute annualmente (468 milioni di euro lo scorso anno) vengono parametrati al 32% delle entrate effettivamente incassate dallo Stato l’anno precedente, derivanti dal versamento delle varie imposte (Iva, Ires, Irpef, Irap…) nell’ambito della gestione di impianti sportivi, palestre e dell’attività dei club. Se consideriamo che il contributo fiscale delle società di calcio professionistico supera i 900 milioni di euro (fonte “Il Sole 24 Ore”), non serve un ragioniere per calcolare che, di fatto, la Serie A sostiene per circa due terzi tutto lo sport italiano, compresi gli sport “minori” e le piccole associazioni sportive dilettantistiche.
Una domanda: con le priorità che avrà lo Stato dopo questa emergenza (giustamente ci saranno interventi prioritari rispetto allo sport e settori che andranno completamente ricostruiti), come pensiamo di riuscire a tenere in piedi le nostre società sportive, gli enti di promozione sportiva, i settori giovanili e le società di oratorio senza parte di queste risorse?
Ultima modifica: 10 Maggio 2020